Una delle pratiche più comuni nella nostra Comunità è la Condivisione sul Dharma. È un’opportunità di esplorare insieme la nostra pratica in gruppo. Ci sono molti modi di facilitare una condivisione sul Dharma; ecco alcune linee-guida:
1. Praticare l’ascolto profondo e la parola amorevole e consapevole.
Gli argomenti emergono dalla nostra vita e pratica. È meglio evitare condivisioni teoriche invece che esperienziali. La nostra aspirazione più profonda è “imparare il tuo (di Avalokita) modo di ascoltare per aiutare ad alleviare la sofferenza nel mondo”. Possiamo invocare il nome di Avalokiteshvara prima di cominciare la condivisione.
Anche se abbiamo l’intenzione di ascoltare in profondità, la nostra mente si distrarrà. Forse ci sentiremo d’accordo, o in disaccordo, o agitati, impazienti di rispondere, ci lasceremo trascinare ecc. Se siamo consapevoli dei nostri pensieri e del nostro dialogo interiore possiamo scegliere di tornare a essere presenti con la persona che sta parlando. Molti nel Sangha la usano come un allenamento per diventare ascoltatori più attenti in famiglia e con gli amici.
Il nostro modo di parlare, come il nostro ascolto, è frutto della pratica, è una risposta che viene da dentro. È bene per l’atmosfera della condivisione sul Dharma che i partecipanti facciano tre respiri consapevoli prima di parlare, per lasciare il tempo a tutti di ricevere fino in fondo ciò che ha detto la persona precedente. Parlare dal cuore di argomenti che emergono dalla nostra vita e dalla nostra pratica comprende parlare in consapevolezza in un modo che possa essere benefico agli altri come a noi stessi. Per esempio, parlare con gentilezza, con voce chiara e sufficientemente alta perché tutti la possano sentire compresi coloro che hanno qualche deficit uditivo e connettersi con gli altri stabilendo contatti visivi e magari sorridendo di tanto in tanto. Tutti noi traiamo beneficio dal fatto di ascoltare le rispettive visioni profonde ed esperienze dirette della pratica.
Le Linee-guida, come i Cinque Addestramenti alla Consapevolezza, ci proteggono e ci indicano la direzione verso la “Stella Polare” di una comunicazione chiara e compassionevole.
2. Il gesto del loto
Prima di parlare possiamo fare con le mani un bocciolo di fior di loto e inchinarci. Con questo gesto – o con un altro col quale magari siamo più a nostro agio, come mettersi una mano sul cuore – segnaliamo che vorremmo condividere. Il sangha ricambia l’inchino, mostrando che tutti noi siamo pronti all’ascolto profondo. Quando abbiamo finito di parlare facciamolo sapere al sangha con un ulteriore inchino o segnale. La consapevolezza che non saremo interrotti genera un ambiente sicuro e armonioso.
Invece di inchinarci possiamo utilizzare un oggetto, detto “bastone della parola”, da passare in giro in successione nel cerchio. Il facilitatore può utilizzare questo metodo se il gruppo è molto numeroso oppure se sente che ci sono partecipanti che desidererebbero condividere, ma che sono troppo timidi per farlo. In quel caso si può suggerire che le persone si presentino per nome; se una persona sente l’ispirazione a parlare lo farà, se no passerà avanti l’oggetto alla persona vicina. Se ce n’è il tempo, è opportuno far fare all’oggetto un secondo giro, in modo da dare una seconda opportunità a chi prima non era pronto a condividere.
3. Dire il proprio nome prima di parlare.
Questa pratica favorisce un senso di inclusione nei nuovi arrivati, e aiuta chi ha qualche difficoltà a ricordare i nomi. Lo facciamo nei sangha anche quando ci sembra che ci siano solo frequentatori abituali. [In alternativa, il facilitatore può dire il nome di chi chiede la parola, mostrando di averne visto il gesto del loto. Particolarmente utile nei gruppi numerosi, quand’è difficile vedersi bene tutti.]
4. Evitare di dare consigli anche se richiesti.
In generale è utile parlare sempre in prima persona, invece che in seconda (“tu”). Parlare della propria esperienza personale elimina le opportunità di dare consigli. Se qualcuno chiede un consiglio e ci viene in mente una pratica che abbiamo fatto va benissimo condividere la nostra esperienza personale, invece di dire all’altro/a “quello che dovrebbe fare”.
5. Tutto ciò che emerge è confidenziale: “Quel che si dice qui rimane qui”.
La riservatezza garantisce la sicurezza del gruppo e contribuisce a evitare i pettegolezzi. Inoltre, se dopo la condivisione desideriamo parlare con qualcuno di quel che ha detto nel gruppo, prima gli/le chiediamo il suo consenso: a volta uno desidera non parlare più di quel che ha condiviso, e questo è un modo rispettoso di riconoscere e onorare il suo spazio personale.
6. Astenersi dal parlare una seconda volta fin quando non è chiaro che tutti coloro che desideravano parlare l’hanno fatto.
Questo assicura a tutti la possibilità di parlare e offre uno spazio nel quale possiamo beneficiare della saggezza di ognuno nel sangha. Siamo incoraggiati a parlare in consapevolezza, “né troppo né troppo poco”, in proporzione al numero dei partecipanti. Verso la fine del tempo a disposizione, il facilitatore può offrire a chi non ha ancora parlato l’occasione di farlo, se lo desidera, e può rispondere alle domande che sono rimaste senza risposta.
7. Condividere con tutto il cerchio
Tutto ciò che condividiamo è a beneficio di tutti i presenti. Non ingaggiamo dialoghi o dibattiti con un altro partecipante. Se poniamo una domanda, la poniamo all’intero gruppo, e se rispondiamo a una domanda parliamo a tutto il gruppo e non solo alla persona che ha fatto la domanda. Se facciamo una domanda non aspettiamoci una risposta immediata. Può succedere che prima si parli di un altro argomento e solo quando qualcuno si sente pronto a farlo arrivi a toccare l’argomento su cui è stata posta la domanda. Tuttavia, se verso la fine della condivisione la domanda è ancora rimasta senza risposta, il facilitatore può rassicurare il gruppo che non la si è dimenticata [e offrire una risposta].
dalle Linee-guida dell’Ordine internazionale dell’Interessere in:
Order of Interbeing, Practices, July 30, 2011 – Chân Niệm Hỷ